“Le joli chemin des genêts”

Jacques richiamò alla mente altri ricordi di quella deliziosa settimana toscana. Spesso cadeva così assorto nelle proprie visioni da estraniarsi totalmente: a guardarlo in quei momenti si sarebbe visto un uomo dallo sguardo perso nel vuoto, incurante di ciò che gli accade intorno. Il suo pensiero tornò ad una magnifica strada sterrata che conduce da San Quirico d’Orcia a Pienza; Jacques la chiamava “le joli chemin des genêts” perché era entusiasta della copiosa presenza primaverile dei dorati arbusti in fiore, profumati sotto il sole, e non riusciva a capire se fossero cresciuti per caso al bordo della carreggiata o se qualcuno li avesse abilmente piantati, con notevole maestria, ad incorniciare quelle curve in saliscendi con vista sulla città di Pienza regalmente adagiata su una collina. Quelle ginestre erano da un lato familiari perché, nato nelle Baronnies della Drôme Provençale e cresciuto nel Var, per lui erano un marchio distintivo della tarda primavera; un’esperienza dei sensi – vista, olfatto e anche udito per via del ronzare delle api – seconda solo a quella dei campi di lavanda dello zio Bernard a Mévouillon, dove trascorreva da sempre lunghe settimane di vacanza. Ma d’altro canto gli apparivano molto diverse: nella terra natale Jacques contrapponeva le ginestre disordinate e selvatiche alle distese di lavanda disposta in filari disciplinati, addomesticata dagli uomini; in Val d’Orcia, invece, anche le ginestre erano parte di un mirabile progetto in cui ogni dettaglio sembrava essere stato messo al posto giusto da un sublime disegnatore di giardini; incluse quelle certamente spontanee che ornavano come un merletto ai bordi di una tovaglia provenzale le chiazze chiare delle argillose biancane che spiccavano in mezzo al verde dei pascoli.
A proposito di pascoli: anche le greggi di pecore sparse a generose manciate sul terreno ondulato gli ricordavano la terra natale, ma a differenza di quelle provenzali, spesso disordinatamente sparpagliate sugli altopiani e rumorose come un esercito indisciplinato, quelle valdorciane stavano per lo più silenti e rientravano in quell’armonia come perline bianche disposte con pazienza certosina a decorazione di un tessuto di raso verde. Era certamente insensato pensare che gli ovini toscani possedessero un innato senso dell’ordine che li distinguesse da quelli del resto del mondo; eppure in Val d’Orcia Jacques aveva proprio quell’impressione.
Dalle pecore ai formaggi il passo fu breve e Jacques rammentò con diletto certe gustose disquisizioni con Roberto a proposito di pecorini e fromages de chèvre: impagabili prelibatezze frutto di quelle terre così ricche e della generosità del buon Dio. Preso dalla mania che a volte lo spingeva ad occuparsi anche delle cose più banali come se stesse scrivendo un saggio, aveva insistito a lungo con l’italiano perché stilassero insieme una specie di classifica casearia, analizzando puntigliosamente ogni aspetto organolettico di quei celestiali cibi: pecorino rosso, pecorino nero, stagionati e semi-stagionati, Banon, Picodon, Grande vecchio di Montefollonico, Poivre d’âne… Molto opportunamente Roberto l’aveva fermato: perché sprecar tempo a riempirsi la bocca di parole quando era ben più appagante riempirla solo di formaggio?
E a proposito di formaggio… saltando da un’associazione di idee all’altra, esercizio in cui Jacques era più agile del celebre barone di Münchhausen in volo sulla palla di cannone, il ricordo dell’aroma di pecorino soavemente diffuso per l’aere nel corso principale di Pienza, dove le botteghe si rincorrevano una dietro l’altra, gli fece venire l’acquolina in bocca: rientrato in sé, era tempo di aprire il menù e farsi un’idea per la cena.

Tratto da: “Jacques Messadié gioca a sciarada”

Le joli chemin des genêts (final)