Nonostante non abbia scritto su questo taccuino per quasi un anno e mezzo, molti pensieri mi sono girati per la testa senza che essi abbiano trovato la strada per fissarsi sulla carta; in particolare quello che sto scrivendo adesso risale addirittura alle prime settimane del confinamento.
Cercando di fuggire dalla gabbia, il mio sguardo gettato fuori dalla finestra mirava il lontano crinale dei monti ad ovest e, superandoli con uno slancio, spiccava il volo per atterrare in un villaggio dell’Alta Provenza o su un pascolo alpino vicino ad una cascata; o in altri luoghi che porto sempre con me e che credo mi allieterebbero pure se fossi get­tato in una gattabuia nei sotterranei di un castello. In verità, regole o no, dopo la fine del confinamento “duro” sortite oltre confine sono state possibili – dopotutto mica c’era l’esercito a presidiare certi sperduti passi di montagna – ma altre destina­zioni, come Parigi, mi sono state precluse e di fatto lo sono tutt’ora. Non è che io ami particolarmente le grandi città – mille volte meglio sono le campagne con i loro tranquilli villaggi – ma è anche vero che sono passati quasi vent’anni dalla mia ultima volta nella capitale francese; e mi piacerebbe tornarci.
È venuta curiosamente in mio aiuto – senza che nemmeno lo sappia – una persona che appare tra i contatti di un social a cui, nonostante lo dete­sti, sono iscritto. È il signor Giovanni; tanto per iniziare ha la faccia simpa­tica, il che non guasta mai. Dopodiché leggo nella sua biografia che, pur essendo italiano, vive proprio a Parigi ed è antiquario (in pensione, ma credo che un antiquario rimanga tale per sempre). Questa manciata di informa­zioni è più che sufficiente per allungare la gittata e spingere la mia men­te ben oltre le Alpi, fino ad atterrare proprio nel centro della capitale transalpina: per la precisione, in un vicoletto dietro la Cattedrale di Notre-Dame, dove una volta c’era un bel ristorantino, raffinato sin nella scelta delle po­sate d’argento e dei piatti da portata ben decorati. Colà assaporai per la prima volta il paté di fegato d’oca. Non c’è verso che mi ricordi il nome della via; anzi, non riesco neanche a riconoscerla nello stradario, tanto che mi viene il dubbio che fosse davvero dove ricordo; potrebbe essere stata nei dintorni, forse nell’Île Saint-Louis. Ma alla fine non importa, perché a questo punto il confine che delimita la realtà è già stato superato.
M’immagino che la bottega del signor Giovanni sia proprio di fianco al ristorante, da cui sono appena uscito per concedermi una passeggiata dopo un pranzetto a base di escargots e Nuits-Saint-Georges. Entro incuriosito. Vengo subito accolto dal piacevole odore di cera e legno di mobili anti­chi: una consolle stile Luigi Filippo, un comò intarsiato Napoleone III, una credenza probabilmente del Settecento con due bei ripiani colmi di vetusti libriccini… Alle pareti sono appesi quadri dalle cornici dorate, raffiguranti paesaggi – uno lo riconosco di sicuro, è Beaune – o ritratti di persone antiche, dallo sguardo fiero o distratto. Giro lentamente posando gli occhi qua e là, senza un interesse ben preciso, nel silenzio quasi asso­luto; è interrotto solo dal periodico tic-tac di un orologio a pendolo (non concepisco una bottega d’antiquario senza un orologio a pendolo!). Su un ripiano stanno raffinati oggetti di porcellana, mentre un violino è appeso al muro; a fargli compagnia un liuto appoggiato su una poltrona.
Chiedo ad alta voce se c’è il proprietario, ma non ottengo risposta; però dopo qualche secondo odo un confuso rumore di passi che sembra provenire dal piano superiore; poi qualcuno scende le scale e, infine, il signor Giovanni si materializza comparendo da dietro una tenda. Gli chiedo in­formazioni sul quadro raffigurante Beaune, che effettivamente stareb­be molto bene nel mio salotto; poi finiamo a parlare di questo e di quello per una buona mezz’ora, come se il mondo ancora girasse nor­malmente, come un tempo.

2 maggio 2022, Sant’Atanasio

«La bottega di antiquario», Cesare Vianello