I tetti

Da un lato desidererei un panorama migliore fuori dalla mia finestra: campagne, prati, ruscelli, boschi, montagne… Invece vedo in gran parte la città, le montagne sono relegate al ruolo di quinte. Tuttavia potrebbe anche andar peggio: c’è chi non vede nient’altro che il palazzo di fronte o un muro; invece io vedo in prevalenza i tetti delle case, una distesa ampia e omogenea.
I tetti sono un luogo intrigante che mi ha sempre attratto, sin dall’infanzia. Anche alle elementari quello che vedevo fuori dalla finestra dell’aula erano in gran parte tetti; quando mi annoiavo immaginavo divagazioni tra le lastre d’ardesia. Eppure sui tetti – intendo dire fisicamente – sono stato raramente, molto raramente. L’ultima volta da bambino, roba di quarant’anni fa, sul tetto della casa del nonno paterno, in riviera. Si andava a cena da lui regolarmente ogni sabato sera; in rare circostanze si rimaneva anche la domenica e stavo a dormire con i miei in una piccola mansarda. Era circondata da un ampio terrazzo; ne ricordo ancora la copertura in piastrelle bianche e nere, con il catrame nudo ai margini, verso i canali di scolo dell’acqua piovana. Ricordo anche le ringhiere che dividevano le varie porzioni di tetto, pertinenti a diverse proprietà. Sotto il sole primaverile c’era un odore particolare, che ho ancora in mente; ad una cert’ora si arricchiva di vari effluvi più o meno gradevoli, fuoriusciti dai camini e provenienti dalle cucine. Il sole e il primo caldo facevano anche venir fuori, in certe giornate, nugoli di ragnetti rossi che vagavano senza meta apparente. Erano minuscoli ma ben visibili per via del loro colore intenso, che risaltava tra il bianco e il nero delle piastrelle; se finivano sui vestiti e vi rimanevano spiaccicati ne risultavano macchie indelebili, non si potevano lavar via. Sul tetto a volte giocavo a calcio con mio padre; con molta prudenza, senza mai alzare troppo la palla, per evitare di farla cadere giù in strada. Se non giocavo passeggiavo lentamente guardandomi intorno: verso nord si vedevano i monti, aspri e punteggiati di boschi; in direzione opposta i tetti del paese che digradava gentilmente fino a giungere al mare.

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Opera di Giorgio Oikonomoy – via oikonomoy.it

Così in questi giorni non mi dispiace troppo vedere una marea di tetti fuori dalla finestra – anche se, lo ripeto, preferirei vedere prati e alberi. Sbirciando nella selva di camini, antenne e ringhiere ogni tanto si scorge una figura umana: qualcuno che sfugge come può all’isolamento, in mancanza di un giardino. Certi hanno portato sul terrazzo un tapis roulant per fare un po’ di movimento all’aria aperta – pur essendo in città l’aria non è spiacevole, c’è vento e non si sente puzza di smog.
Ho sempre pensato ai tetti come un mondo a parte, un mondo che sovrasta la normale quotidianità, fatta di gente che cammina pensierosa per la strada; una specie di città sopra la città. Con molta fantasia la foresta di antenne, comignoli e ringhiere può ricordare un pochino gli alberi in campagna; i tetti spioventi un po’ sfalsati le colline e le montagne. Certo i tetti non sono come le montagne, ma stanno pur sempre qualche decina di metri sopra terra e, dunque, sono più vicini al Cielo. Se non altro offrono una visuale non ostruita del cielo; non come chi ne vede solo una fetta dal marciapiede, affossato in un canyon urbano.
Ho già scritto che alle elementari vagavo spesso con la fantasia di tetto in tetto; ma anche dopo, da adolescente e poi ragazzo; ogni tanto lo faccio ancora. Fantasticavo di vagabondarci di notte, sotto il chiaro di luna, camminando lungo i cornicioni. Un po’ mi immaginavo di essere un gatto che fa del tetto il proprio regno. Strano: alla fine non ho praticamente mai visto un gatto su un tetto; ma, conoscendo bene i felini, sono sicuro che è un ambiente a loro molto gradito. Per vagare di tetto in tetto bisogna in realtà essere un gatto un po’ magico, in grado di volare per superare l’isolamento: le strade sono ampie e non sono a portata di balzo. Altro sarebbero i tetti del centro storico di un paesino, tutti addossati l’uno all’altro; ma lì ci sarebbe abbondanza di coppi spioventi, poco praticabili (beh, un gatto non avrebbe problemi: ma io sì, anche se mi trasformassi in un gatto).
Viva i tetti, che per ora rendono un po’ meno angusta questa prigione.

30 marzo 2020, Beato Amedeo IX di Savoia